Focus su: “Il tagliapietre” di Cormac McCarthy

Il tagliapietre Cormac McCarthy Focus Copertina

Einaudi porta in Italia «Il tagliapietre», l’unica opera di Cormac McCarthy che non era stata tradotta nel nostro Paese. Un’opera dall’andamento biblico, da libro dei re. E dei dannati.

«Se una parte del peso del mondo passa per le mani di un uomo, egli deve immergersi nella realtà di questo mondo per una via superiore a ogni verifica. Una via che non si dissolva facilmente».

Un genio. Cormac McCarthy dimostra di esserlo con Il tagliapietre. Alla sua prima apparizione in Italia, nel 1993 con Cavalli selvaggi (Guida editore), non molti lessero lo scrittore americano, diventato di culto con romanzi come La strada o Non è un paese per vecchi, ma poi Einaudi ha saputo trasformarlo in uno degli autori più letti, incensati e amati anche nel nostro Paese.

L’inedito Il tagliapietre è un dramma in cinque atti destinato al teatro, ma non deve spaventare perché grazie ai lunghi monologhi del protagonista ha la leggibilità di un romanzo. Malgrado sia stato stroncato negli Stati Uniti come «un notevole “fallimento” è invece tra i suoi testi più riusciti.
Si è letto di tutto a riguardo, non sui quotidiani ma sui siti letterari: tutti a cercare una fonte, un confronto, una similitudine ma con superficialità tanto da scrivere che “è l’ultimo inedito di McCarthy”. Non è vero. Ci sono racconti, saggi, sceneggiature cinematografiche, interviste (memorabile quella con i fratelli Cohen) da noi mai editi.

Una premessa: questo libro, rispetto agli altri dell’autore americano, è qualcosa di singolare perché al «mito della frontiera» contrappone un Midwest americano raccontato in prima persona da un nero che affronta le difficoltà di quegli Stati dove non è mai stato e non è facile vivere.

Il tagliapietre è centrato sulla figura di Ben Telfair, nero, poco più che trentenne, al contempo narratore e attore del dramma. Siamo negli anni Settanta, a Louisville, Kentucky; Ben abbandona gli studi universitari in psicologia per perpetuare la tradizione di famiglia. Di mestiere, i suoi sono scalpellini, tagliatori di pietre. Il totem della famiglia Telfair è nonno Papaw, che incarna i valori dell’onestà, della rettitudine, della fede. Ben è lì che vorrebbe radicarsi, ma il mondo lo morde e lacera la famiglia. La sorella più grande di Ben, Carlotta, vive un matrimonio devastato: il figlio di lei, quindicenne, è un perduto, richiamato dalla dissipazione, dalla droga. La moglie di Ben, Maven, sogna il riscatto sociale, è bella, vuole diventare avvocato. Il padre di Ben, travolto da un tracollo finanziario, si uccide.

I monologhi di Ben –ad alta elettricità linguistica– interrompono spesso il dramma. Ben fa le funzioni del coro nella tragedia greca: qui sembra che Eschilo abbia i jeans, che sia passato dalla luce greca all’arcaica desolazione americana.


Il tagliapietre
Cormac McCarthy 

Sipario. In scena quattro generazioni della famiglia Telfair, scalpellini neri di Louisville, Kentucky. Il protagonista, Ben, ha imparato dal nonno Papaw che «un muro è fatto allo stesso modo in cui è fatto il mondo. Una casa, un tempio». Cosí, ora che la vocazione del taglio della pietra in famiglia si va esaurendo, Ben dovrà fare come la casa e il tempio, e come quelli resistere e restare. L’ultima opera ancora inedita dell’autore di Il passeggero e La strada, l’unica nata in forma teatrale, vede la stampa dopo quasi quarant’anni dalla sua stesura, e incastona la tessera finale in un mosaico immaginifico che non cessa di stupirci.


C’è un uomo che parla con i morti, ne Il tagliapietre, che scardina la propria solitudine, che scava un compito nel dolore, che ha un destino di pietra e sceglie il vento, che sa la vorticosa rovina di Dio e cede, si slaccia, impara a pregare, perché la vita al di là è più ricca di questa. Questo spaventa. E questo è Cormac McCarthy.

Lo scrittore americano è come se avesse intuito il nostro presente già negli anni 70 in un Midwest che oggi è davvero il centro degli Stati Uniti. E lo fa con queste pagine, che ci arrivano come pugni e carezze.
I suoi libri trascinano nell’al di là della narrativa, nel luogo degli interrogativi micidiali. Non si leggono: obbligano a una scelta – persino a una responsabilità che riguarda il nostro stare al mondo.

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