Un estratto del romanzo di Roberto Vecchioni “Scacco a Dio”
Un giorno Dio – in piena crisi esistenziale – chiede al suo Angelo consigliere, mandato sulla terra per conoscere più da vicino gli uomini, di aiutarlo a comprendere perchè proprio le creatire umane sono le più ribelli del creato
Inizia così una sorta di “terapia” in cui Teliqalipukt (vecchia conoscenza dei lettori di Roberto Vecchioni), di seduta in seduta, si fa cantastorie per Dio. Da Catullo a JFK, passando per Shakespeare e Federico II.
Scacco a Dio libro di Roberto Vecchioni
La prima volta si presentò vestito da pittore rinascimentale.
– Chiudi la porta e vieni dentro, – disse.
– Ma qui non c’è porta, – rispose Teliqalipukt.
– E tu fai finta che ci sia e chiudila.
Sistemò tavolozza, tele, colori, cornici e sgabello in bell’ordine e tirò un sospiro divino.
– E perché non pompiere, usuraio, guardia svizzera o,
che so io, giocatore delle tre carte? – ironizzò Teliqalipukt.
– Taci, Teliq, è una cosa grossa, è una cosa grave: tu
non puoi immaginare nemmeno lontanamente perché sono qui.
– Illuminatemi con la vostra sapienza.
– Sto male.
Teliqalipukt lo guardò. Doveva ridere o prenderlo sul
serio? E come prendere sul serio uno che ti si presenta in
velluto cachi e cappello a sbuffo, e comincia a far schizzi
a carboncino mentre annuncia una catastrofe? E poi come doveva chiamarlo? Dio? Signore? Voi? Ella? «Capirà
se gli dico: si accomodi, si sfoghi, il bagno è di là?»
Con Dio aveva sempre avuto contatti di natura eterea:
si trasmettevano attimi d’estasi senza mai vedersi, così come si deve tra puri spiriti. Ma ora le cose cambiavano: cosa
ci faceva Lui lì, nel tempo, camuffato da Bernardino Luini? O era il Mantegna?
Teliqalipukt era un immortale: Dio l’aveva scelto ab
origine per vigilare sul mondo, per entrare di soppiatto nel
la vita degli uomini e guardare, osservare, capire, senza interferire col loro destino, coi loro propositi; e lui, di uomini, ne aveva conosciuti e seguiti a centinaia, a migliaia,
nei secoli, fino a scoprire come cambiavano, cosa volevano, sapevano, speravano, fino a misurarne le miserie e i colpi d’ala, sempre presente quando sbagliavano, quando
cadevano, attento al loro stupore infantile davanti alle scoperte, ai loro versi millimetricamente imperfetti nel dire
gli orli della solitudine e l’esperienza della luce.
Era uscito dalla misura degli angeli; aveva assistito alla nascita della geometria, letto il primo libro, sentito sbuffare la prima locomotiva, visto Edison accendere una città
intera, i fratelli Wright alzarsi increduli sulle loro ali di legno e poi… e poi…
Ancora quella stretta al cuore che non lo lasciava in pace: i suoi ragazzi, i suoi piccoli immortali! Da quanto non
li vedeva? Da quanto non erano più con lui?
– Voi non potete stare male, Signore: dev’essere qualcos’altro, che so, un ritorno di pensiero, una stasi d’immortalità; ma che dico, è impossibile! Cosa… cosa vi sentite?
– Un infinito vuoto, una specie di nausea astrale, un
sottosopra, una gran voglia di rompere tutto e ricominciare da capo.
– Piano, piano! Andiamo con ordine. Innanzitutto cosa ci fate qui, vestito in modo così ridicolo?
– Ridicolo? Io adoro il Rinascimento. Be’… diciamo
che è una necessità, Teliq: non potevo certo sciorinarti
quel che ho sul gozzo e ascoltare le tue prediche come puro spirito. Non esistono consigli e contraddittorio tra spiriti. Ci vedi, noi due, a chiacchierare per sospiri e lampi
di luce? No, dovevo in qualche modo entrare nel tempo:
nel tempo si possono usare i pensieri e le parole, come fanno gli uomini. Così, già che c’ero, mi son tolto lo sfizio di
interpretare i ruoli che mi piacciono di più. Però, c’è un
però, anche così non riesco a star fermo, non mi lascia questa fregola di creare –. E lo si vedeva bene: in dieci minuti aveva già dipinto venti nature morte e una pila di ritratti: particolarmente riuscito un Giuliano de’ Medici pugnalato in Santa Maria del Fiore con i Pazzi che fan finta di
niente.
– E questo è chiaro, – riprese Teliqalipukt. – Ma cosa
c’entro io in tutto ciò?
– Gli uomini, Teliq: nessuno conosce gli uomini meglio
di te.
– Voi, Signore!
– Credevo, ma devo averli persi un po’ di vista negli ultimi tempi.
– Diciamo pure dall’inizio.
– Adesso mi sembri esagerato: io ho indicato loro in
tutti i modi la strada da seguire, e non avevo dubbi sulla
riuscita: sono o no a mia immagine e somiglianza?
– Qui sta l’inghippo. A immagine forse, benché sian
molto più belli di voi; a somiglianza, lasciatemelo dire,
neanche un po’. Quanto alla strada, mi pare che abbiate
fatto un po’ di confusione.
– Ma se ho perfino mandato mio figlio!
– E perché l’avete mandato?
– Oh bella, perché sapessero che non li avrei mai abbandonati!
– Sbagliato!
– Sbagliato cosa?
– È stata una correzione, Signore. E una correzione significa che avevate commesso un errore e volevate porvi
rimedio. Ma voi non potete correggervi!
– Io ho solo voluto chiarire, insomma spiegare meglio
quello che non riuscivano a capire.
– Il Vangelo è stato un atto di debolezza, una zappa sui
piedi: voi dovevate dire ogni cosa nell’Antico Testamento. E che? Non c’era più spazio nelle tavole di Mosè? Lo
si trovava: vi sembra un comandamento «Non desiderare
la roba d’altri»? E che desidero? La mia? Sapete cos’è successo? Ve lo dico io: «Scusatemi, scusatemi, avete presente quella storia che se mi ciechi un occhio io cieco il tuo?
Si scherzava, non è vero, anzi, bisogna farsi ciecare pure
l’altro»! Vi sembra credibile?
– Be’, però il Vangelo ne ha avuto di successo!
– Una grande operazione di marketing, Signore: un bel
mix di immagini strappalacrime e promesse elettorali. Un
vero trappolone: «È vostro il regno dei cieli». Vedete del
cielo, voi, qui intorno? Il cielo è tutta quella roba inutile
laggiù in fondo che avete riempito di stelle: non sapete più
che farvene! E vogliamo parlare di Maometto?
– No, no, lì ho sbagliato a non troncare subito, ma ne
ho sottovalutato la portata. Io avevo in mente qualcosa di
universale, per tutti, ma gli uomini si dividono in popoli
e un popolo lo fai su facile se gli dici che da lassù si briga
solo per lui. I popoli non guardano oltre il proprio cortile
e sanno essere cattivi come i bambini sulla spiaggia: «Questo secchiello è mio, la paletta pure». E allora ecco premi
eterni concessi solo alla loro tribù, conventicola, ecco il divino a proprio uso e consumo, il Paradiso esclusivo vista
mare.
– Se lo dite voi.
– Sì. Ma piantiamola con la teologia, Teliq, ché tanto
non ci siamo tagliati. Il mio problema non è questo: il mio
assillo è che mi sembra di perderli.
– Gli uomini?
– Oh, non tutti, ma forse proprio quelli a cui tengo di
più. Sembra quasi che lo facciano per farmi dispetto: arrivati a un certo punto è come se spegnessero la stella che
li guida, come se s’incidessero un’altra linea della vita sulla mano. No, non parlo di peccati, quelli son minuzie: dico
il loro cammino, il corso del loro destino. Hanno un solco
da seguire, un viaggio da compiere e improvvisamente lo
cancellano, lo resettano, vogliono essere altri da sé; stropicciano le loro anime fino a rendersele irriconoscibili, si
ribellano alla felicità. È come se in un’immaginaria scac
chiera non accettassero più le diagonali di un alfiere, i salti di un cavallo, le rette di una torre, cioè le regole che conducono a quell’unica suprema bellezza che è il fine, e la fine. Non vogliono, non vogliono più: i cavalli escono dalla scacchiera, le torri volano in alto, i pedoni ripercorrono
i propri passi, e in questo delirio, in questo gioco stravolto, ingannando lo spazio e barando con il tempo, spacciano ’sta falsa libertà per uno scacco a me, uno scacco a Dio.
Ecco cosa mi tormenta e cosa voglio capire: dove ho sbagliato? Come ho fatto a perderli?
In un lampo affrescò quattordici scene della vita di
sant’Eustorgio su un immaginario soffitto.
– Merita tanto?
– Chi? Sant’Eustorgio? No di certo, ma mi viene particolarmente bene –. Posò il pennello. – Tu, Teliq, sei stato sempre tra gli uomini e li conosci veramente. Devi raccontarmeli come sai, devi parlarmi di questo demone che
li divora e spiegarmelo, per farmi uscire da ’sta crisi, e in
fretta, perché se mi va in pappa la mente, qui sbaracchiamo tutti.
Teliqalipukt non aveva molta voglia di parlare con
Dio. Crisi? Dio era veramente in crisi? O lo stava soltanto mettendo alla prova? E perché? Dio, com’è difficile capire Dio! Ma non poteva essere vero, Di0 non conosce parole come errore, rimorso, paura, fallimento;
ogni cosa è nei suoi piani, preordinata, risaputa, calcolata, ogni cosa è nel suo perfetto Disegno, anche questo recital di stravaganti incertezze. Era Lui che si era imposto di mettersi in dubbio: Dio il dubbio ce l’ha in sé come risposta da scegliere, non da subire, diverso è per gli
uomini, che dal dubbio sono ghermiti, snervati, impiastrati, e al tempo stesso tenuti vivi. Che stesse giocando,
così, per ingannare il tempo, provando a imitarli, a mettersi nei loro panni?
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