Focus su: “La torre d’avorio” di Paola Barbato

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«È possibile cancellare il passato e liberarci della persona che siamo stati?» Mara sa che l’unica possibilità è la fuga, da chi vorrà incolparla di quell’omicidio e da chi invece lo ha commesso per incastrarla.

«Aveva sempre avuto un’idea propria di cosa fosse una Torre d’Avorio. Nell’immaginario collettivo, si tratta di una struttura inaccessibile edificata utilizzando materiale pregiato. Mara però non si levava dalla testa che l’avorio derivasse dalle zanne degli animali, e che quindi la Torre, di fatto, fosse costituita da denti. Era un’immagine ripugnante, trovarsi chiusi in una bocca che avrebbe potuto iniziare a masticarti in qualunque momento. Esattamente la condizione in cui voleva stare per il resto della vita».

La protagonista, Mara Paladini, un tempo Mariele Pirovano, come vedremo nella descrizione dell’opera, è un personaggio estremamente complesso che Paola Barbato ha curato meticolosamente come figura negativa della storia, ma che è solo una dei cattivi in questo romanzo. L’autrice ce la racconta con un trasporto che chiarisce quanto le sia affezionata. In fondo è una sua creatura, ma non si limita a descriverla, sembra vivere insieme a lei i turbamenti del passato e del presente che ci racconta ne La torre d’avorio.

Mara era affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura. In questa storia che la vede protagonista è in una nuova città e si tiene a distanza da tutto e da tutti. Paola Barbato ci ha spiegato che il titolo del suo nuovo romanzo, La torre d’avorio, si riferisce proprio all’isolamento di Mara che abita in un ampio appartamento, pieno di scatole contenenti il suo passato e che lei teme di aprire.

Nel momento in cui vede delle gocce d’acqua cadere dal soffitto mettendo a rischio l’incolumità delle sue scatole, Mara si spinge fino al piano superiore per scoprire che il suo vicino è deceduto in bagno, sicuramente avvelenato.

In quel momento, Mara teme di essere stata incastrata perché nota nella morte dell’uomo lo stesso crimine che ha rischiato di commettere anni prima verso la sua famiglia e per il quale è stata internata per otto anni. La sua malattia mentale la portava infatti a debilitare suo marito e le sue figlie per poi potersene prendere cura, fino a quando, a causa di una sua distrazione, un giorno ha rischiato di ucciderli.


La torre d’avorio
Paola Barbato

È possibile cancellare il passato e liberarci della persona che siamo stati? Mara Paladini ci sta provando da tredici anni, dopo aver scontato una pena in una struttura psichiatrico-giudiziaria per il tentato omicidio del marito e dei due figli. Il nome di quella donna, affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura – una patologia che porta a far ammalare le persone che si amano per poi curarle e prendersi il merito della loro guarigione – era Mariele Pirovano, ma quel nome Mara lo deve dimenticare, perché quella persona non esiste più. Almeno questo è ciò di cui tutti vogliono convincerla. Lei però non ci crede e nella sua nuova vita in una grande città, a centinaia di chilometri dal proprio passato, ha costruito una quotidianità che la tiene lontano dal mondo, che le impedisce di nuocere ancora: non esce quasi mai e della casa procurata dai servizi sociali ha fatto una prigione di scatoloni e memorie, dove seppellire per sempre Mariele. Un giorno però nella sua torre d’avorio si apre una breccia. Comincia tutto con una piccola macchia di umidità sul soffitto, che la costringe ad andare al piano di sopra per avvertire il vicino. Potrebbe essere cosa da nulla, invece la scena che le si presenta è un uomo morto, con i segni dell’avvelenamento sul corpo. Mara potrebbe non riconoscerli, quei segni; Mariele invece non ha dubbi, perché così ha quasi ucciso le tre persone che amava di più. Ora Mara sa che è stato tutto inutile, che il suo passato l’ha riagguantata: ora Mara sa che l’unica possibilità è la fuga, da chi vorrà incolparla di quell’omicidio e da chi invece lo ha commesso per incastrarla.


Questo romanzo però, non gira solo attorno all’omicidio o alla fuga della protagonista per paura dell’assassino, ma è anche una visione umana sulle debolezze delle persone e sulle loro diversità. Riflettiamo con Paola Barbato sul fatto che donne del tutto differenti, facenti parte di ceti sociali diversi, che hanno interessi e gradi di istruzione completamente opposti, possano comunque condividere la stessa tragica esperienza. In questo specifico caso si condivide la reclusione. Cinque donne, le uniche di cui Mara si fida, si trovano nello stesso istituto, ma per motivi diversi.

Ma la criminalità femminile è sempre giustificabile? Se è vero che, in letteratura, l’arma del delitto femminile per eccellenza è il veleno, è anche vero che un individuo di indole cattiva non ha genere in questa storia e, forse, anche nella vita.

Dopo più di dieci opere, La torre d’avorio è la prima dell’autrice in cui vediamo un crimine all’interno di un nucleo familiare. Si può dire, dunque, che è una sorta di fuga di Paola Barbato dai temi trattati in passato e promette molto bene.

Ma da cosa parte l’autrice per costruire una storia? Sempre dalla motivazione, a quanto ci racconta. Nel caso di Mara, che lei ama chiamare con il suo vecchio nome, Mariele, è il suo senso di inadeguatezza, ovvero la necessità di sentirsi importante e utile per la sua famiglia. Da qui la sindrome di Münchhausen per procura perché, come ci spiega Paola Barbato, la semplice sindrome di Münchhausen è deleteria solo verso se stessi.

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